L'ho scorta in un angolo, posizionata dietro un banco sul quale spiccavano ritagli di fogli e matite colorate dalle punte perfette. Le lunghe dita affusolate erano impegnate a formare una montagnetta di trucioli e a separare accuratamente la polvere colorata da essi. La sagoma esile, piegata quasi su stessa, sembrava ipnotizzata da quel lavorìo meticoloso, immobilizzata dal controllo sulle mani. Il volto pallido era incorniciato da un caschetto di capelli neri, lisci e cascanti come una tenda sulla fronte.
All' improvviso, appena il suo sguardo mi ha intravista sulla porta, la padronanza del corpo si è abbandonata ad un dondolìo incontrollato, mentre le sue mani, con un meccanismo compulsivo ma irreprensibile, si aprivano e si chiudevano come un battito d'ali.
La dimensione di un mondo che non mi apparteneva era chiusa nei suoi occhi: due lunghe linee spalancate per le tante domande che la sua mente si stava ponendo. La mia presenza, improvvisa e inaspettata, non era calcolata nei suoi schemi, dentro lei avevo scombussolato qualcosa, spezzato una routine in un'aula in cui ogni volto le era familiare.
Diffidenza, remore e paure si sono palesate per giorni mentre il silenzio scandiva le ore e il suono della sola campanella lo rompeva.
Il mutismo faceva da barriera tra noi, l'arma di difesa più pesante e difficile da affrontare.
Oltre quello sguardo spaurito, ma vispo e incuriosito, c'era un mondo, il suo mondo; in quegli occhi un carico emotivo senza voce, ma dalle mille parole.
Ho iniziato a parlarle, a raccontarle tutto quanto la mia mente mi dettasse. Lei mi guardava, mi osservava, studiava ogni mio gesto, ma, soprattutto, mi ascoltava.
In una mattina uggiosa e fredda, nello stesso modo inaspettato con cui giorni prima io avevo fatto irruenza nella sua vita, voltandosi verso la finestra e indicando il cielo, ha sussurrato: "nuvola".
Aveva scelto di darmi fiducia e di aprirmi una porta nella sua vita.
Ho pianto, lei ha sorriso.
Carla Roberta Brancia